Da Candalù all’Overlook Hotel. Dove si approfondisce perché in molti film case e palazzi sono i protagonisti

di Alessandro Borgogno

Per proseguire il discorso iniziato con il post in risposta allo sciagurato e soprattutto superficiale articolo dell’Independent, è bene spendere qualche parola in più sui film citati, anche perché, al di là delle fesserie, ci interessa sempre analizzare come registi più o meno grandi siano riusciti a dare a case ed edifici non solo dignità di protagonisti delle loro storie, ma anche a dotarli di carattere e personalità proprie e distinte.

Quindi cerchiamo di andare (più o meno) con ordine.
Quarto Potere (Citizen Kane) – 1941 - Orson Welles
Uno dei più grandi capolavori della storia del cinema inizia e finisce, con scene di straordinaria tecnica ed atmosfera, su un edificio che rappresenta e simboleggia aspetto, mole e personalità del protagonista della storia.
Come Charles Foster Kane è ovviamente ispirato alla figura del miliardario William Hearst, così la sua principesca residenza chiamata Candalù (Xanadu in originale) altro non è che l’assurdo e fiabesco Hearst’s Castle, ancora esistente e visitabile sulle colline che dominano la costa californiana vicino Los Angeles.
Ciò che Orson Welles fa, oltre ad usarla come sfondo di molte scene fondamentali, è presentarla letteralmente come la proiezione dell’ego e della multiforme personalità del suo ingombrante protagonista (interpretato da lui stesso, quindi volutamente ingombrante anche nel fisico). Il Castello enorme e labirintico diventa metafora fisica delle molte anime psicologiche di Kane, i saloni immensi e i corridoi infiniti rappresentano plasticamente l’inaccessibilità e l’incomunicabilità che via via prende possesso della sua vita e dei suoi rapporti umani.
Le famosissime scene iniziali e finali, dove il profilo minaccioso del castello si può identificare quasi fisicamente con il protagonista, suggellano questa identità, impedendoci di andare oltre l’enorme cancello con la grande lettera K, e soprattutto chiudendoci lo sguardo con il celebre cartello “No Trespassing”, ad indicare non solo il limite invalicabile della proprietà del miliardario, ma il limite oltre il quale anche la nostra possibilità di analisi è costretta a fermarsi poiché, pur nella comprensione dell’animo e dei segreti di un uomo, c’è sempre un punto oltre il quale non è possibile andare.


Rebecca la prima moglie (Rebecca) 1940 – Alfred Hitchcock
Praticamente in contemporanea con Welles, anzi qualche mese prima, Alfred Hitchcock (al suo primo film americano) fa una scelta molto simile al suo altrettanto geniale collega nel mettere in scena la malsana e un po’ grottesca storia della povera Joan Fontaine che si trova a fare i conti con l’ingombrante fantasma della moglie precedente di Lawrence Olivier, appunto Rebecca.
La maestria di Hitch qui si manifesta nel creare, elemento dopo elemento, un personaggio di complessa e articolata psicologia e di assoluto dominio su tutto e su tutti, utilizzandone l’assenza. Rebecca è morta, non la vediamo e non la vedremo mai. Ma ne scopriamo via via tutti gli aspetti più controversi (e anche perversi) attraverso i ricordi degli altri, le parole, gli oggetti. E soprattutto attraverso il medium della maestosa e un po’ lugubre residenza inglese, Manderley, che diventa protagonista (in barba ai due divi impegnati come attori principali) insieme all’altro straordinario medium, l’indimenticabile governante Miss Danvers, vera personificazione del male e ambasciatrice dell’ingombrante Rebecca nel mondo dei vivi.

La finestra sul cortile (Rear Window) – 1954 – Alfred Hitchcock
Il maestro inglese della suspense ricorrerà più volte in questo elenco, del resto un regista che non ha mai lasciato nulla al caso non poteva certo considerare case ed edifici come semplici scenografie.
In questo film il grande condominio dove si svolge tutta la storia, visibile soltanto dalla finestra da dove James Stewart bloccato su una sedia a rotelle è costretto a guardare il mondo, diventa un autentico essere vivente, con i suoi organi, il suo metabolismo, le sue cellule.
Di più, Hitch lo fa vivere davanti ai nostri occhi letteralmente dall’interno. Il cortile dove si affacciano tutti gli appartamenti mostra davvero il retro (rear) di tutte le case e con loro il retro delle vite di tutti i protagonisti. Siamo immersi nel ventre di un unico grande animale, e ne osserviamo la vita e la morte che vi si agitano dentro senza possibilità di uscirne.

Intrigo Internazionale (North By NorthWest) – 1959 – Alfred Hitchcock
L’articolo incriminato dell’Indipendent cita proprio un film del 1950 dove il protagonista è ispirato all’architetto Frank Lloyd Wright, affermando che da allora l'architettura è stata per lo più ignorata dai registi.  Peccato che proprio Hitch, quasi 10 anni dopo, si ispiri proprio ad una famosa opera dell’architetto americano (la casa sulla cascata) per la maestosa villa del cattivo James Mason appollaiata sul monte Rushmore.
Difficile poter dire che qui la villa faccia solo da sfondo alla storia.
Il suo aspetto e la sua assoluta particolarità anzitutto suggeriscono immediatamente la ricchezza e i gusti raffinati del proprietario. La sua conformazione permette a Cary Grant di arrampicarsi sulle sue enormi travi di acciaio esterne, le grandi vetrate sono funzionali a diversi altri momenti narrativi fondamentali. E così la disposizione interna degli ambienti e degli arredamenti. Tutto è utilizzato e sfruttato per rendere l’ambiente non un semplice sfondo e neanche una scenografia, per quanto elaborata, ma un elemento irrinunciabile della narrazione.
Con la solita lungimiranza che contraddistingue spesso i ricchi, i coniugi Kaufmann proprietari della villa originale non concessero l’autorizzazione alle riprese (forse temevano il fatto che fosse la residenza di un criminale, dimenticando che i cattivi di Hitchcock sono sempre più interessanti e affascinanti dei buoni), ma Hitch ne fece ricostruire non solo l’esterno, ma anche gli ambienti interni e gli arredamenti, ed ottenne come sempre il suo scopo. E per giusto contrappasso ormai è quasi più facile che vedendone il profilo su una foto o su altra immagine venga prima in mente la casa di James Mason sul monte Rushmore in Intrigo Internazionale piuttosto che la casa dei Kaufmann progettata da Wright sulla cascata.


Psyco (Psycho) – 1960 – Alfred Hitchcock
Su Psycho abbiamo poco da ribadire rispetto a quanto già detto in un post precedente. Se qui la casa non è protagonista allora non abbiamo capito nulla né del film, né del cinema.

Profondo Rosso – 1975 – Dario Argento
Noi italiani nel nostro piccolo non siamo stati da meno, soprattutto negli anni 70. Primo fra tutti, il gioiello horror irripetibile di Dario Argento, quell’impeccabile e scioccante Profondo Rosso che ha tolto il sonno a più di una generazione di spettatori. Fra colpi bassi e attacchi al sistema nervoso di chi guarda, in quella storia assai contorta ad un certo punto conquista la scena una villa, simpaticamente chiamata nel film “la villa del bambino urlante”.
Fintamente collocata nei pressi di Roma, la reale villa Liberty scelta da Argento come location si trova a Torino, e perfino questo straniamento provocato da luoghi situati geograficamente molti distanti e collocati dal film come fossero in una unica città contribuisce all’inquietudine che pervade tutta la pellicola.
In ogni caso, quella villa, abbandonata ma custode di un segreto terribile, diventa per una parte importante del film assoluta protagonista, ed anche le musiche ineguagliabili di Gaslini e dei Goblin le assegnano un tema jazz-blues appositamente dedicato. La fanno vivere, muoversi, vibrare, e in qualche modo anche reagire ai tentativi di portare alla luce il suo mistero inconfessabile.

La casa dalle finestre che ridono – 1976 – Pupi Avati
Ancora in Italia, ancora anni 70, ancora horror. Pupi Avati, più conosciuto per film riflessivi e di delicati sentimenti, fu in realtà l’inventore di un genere tutto particolare, detto “horror padano”. L’idea geniale fu di utilizzare i luoghi della sua infanzia rappresentandoli per tutti quegli aspetti che proprio nell’infanzia solitamente terrorizzano. Segreti del passato tenuti da tutti nell’ombra, l’apparente tranquillità del delta del Po come luogo di tenebre e orrori nascosti. Qui, tanto per non lasciare dubbi, la casa non solo è protagonista della storia, ma lo è già dal titolo. E non è neanche l’unica casa protagonista. Si può quasi dire che tutta la storia sia una storia di edifici, costruzioni, del loro passato e del loro presente, del loro modo di nascondere la verità e di farsi partecipi dei peggiori orrori.
Dalla casa del titolo, testimone e complice dei misfatti passati, alla chiesa dove il pittore maledetto ha lasciato la sua testimonianza che svela gran parte del mistero, alla casa delle sorelle Legnani, particolare nella struttura e nelle forme di abbandono che la contraddistinguono, quasi nascosta da un giardino incolto e che diventa via via ricovero, riparo ed infine trappola mortale. E nelle case le stanze. La stanza della vecchia invalida, le camere d’albergo, la straordinaria soffitta della villa.
Decisamente ogni edificio di questo film ha una sua personalità, una collocazione ben precisa nella narrazione, ed un ruolo determinante nello svolgersi degli eventi. Nel bene, ma soprattutto nel male.

Una giornata particolare – 1977 – Ettore Scola
Quando Ettore Scola decise di raccontarci in modo magistrale il periodo fascista attraverso il breve e fortuito incontro di due persone che sono quasi gli unici personaggi del film, scelse un mastodontico condominio della periferia romana, e lo fece diventare non soltanto un set, ma il vero terzo protagonista della storia.
Da quando si sveglia, a quando si svuota per via dell’arrivo a Roma del Fuhrer, a quando diventa prigione e teatro dell’incontro fra Sophia Loren e Marcello Mastroianni e del loro successivo rapporto, sempre nell’arco di una sola giornata, fra gli androni alle grandi scale condominiali fino alla terrazza, e poi per l’epilogo inevitabilmente drammatico. Si può ben dire che la grande prova dei due attori, magnifici anche in questo film come in molti altri, è servita a bilanciare in modo quasi perfetto la presenza solida e ingombrante del terzo protagonista. Il condominio.

La camera verde (La chambre verte) – 1978 – Francoise Truffaut
Truffaut si dedicò molto più all’umanità e alle sue storie che non ai luoghi e alle case. Non sarà un caso però che quando decise di raccontare una storia incentrata sulla morte e non sulla vita, scelse di raccontare fondamentalmente una stanza, totalmente identificando il protagonista con il suo altare privato costruito per omaggiare la memoria di tutte le persone scomparse.
Non sarà neanche un caso (Truffaut faceva ben poche cose per caso) che il protagonista sia lo stesso Truffaut, che non solo non è un vero attore ma è proprio il “direttore della messa in scena”, come i francesi chiamano il regista di un film. Un altro modo per dire che non stiamo guardando la storia di un uomo, ma la storia di una stanza in una casa.

Amityville Horror (The Amityville Horror) – 1979 – Stuart Rosenberg
Di Amityville Horror non c’è molto da dire. Al di là del valore magari non eccelso del film, in ogni caso un capitolo della storia del cinema horror che non è passato inosservato. Oltre a trarre spunto da una storia vera e da un vero luogo (e una vera casa che si presumeva infestata da presenze demoniache), senza alcun dubbio un film dove la casa è unico e vero protagonista, e lo è tanto da diventare un prototipo anche visivo: alzi la mano chi non ha presente, anche senza aver visto il film, quella tipica casa americana con il tetto a due pendenze e le finestre della soffitta che sembrano due occhi.

La Terrazza – 1980 – Ettore Scola
Di nuovo in Italia e di nuovo Ettore Scola che spesso per mettere in scena le storie dei suoi personaggi, non di rado molte e molto intrecciate fra loro, quasi sempre ha bisogno di un luogo fisico ben disegnato e ben caratterizzato.
E qui il luogo sale anche agli onori del titolo, tanto è il fulcro di tutte le azioni e tutte le storie raccontate nel film. La terrazza di un ricco appartamento romano dove stancamente si ripete lo stesso identico rito mondano è la massima esemplificazione di un luogo che diventa parte integrante del mondo che viene raccontato. Tanto la terrazza sarebbe un luogo qualunque senza quei personaggi e quelle storie che la animano, tanto quegli stessi personaggi non avrebbero quasi nulla da raccontare se non avessero modo di ritrovarsi in quel luogo, e proprio in quello.

Poltergeist (Poltergeist) – 1982 – Tobe Hopper
Variazione folgorante e spettacolare (produce Spielberg) della tematica di “Amityville”, con Poltergeist diventa protagonista la casa media della classe media di una classica media speculazione edilizia americana.
Essendo tutto legato alla casa, tutto della casa diventa fondamentale per la storia: la disposizione su due piani, la collocazione della stanza dei bambini, il giardino e lo spazio per la piscina. E naturalmente, il televisore, presente in ogni stanza e per questo forse trasformato dagli eventi nella causa e nel mezzo di comunicazione principale con l’aldilà. Rilevante qui come in molti altri film americani, il ricorso ripetuto e quasi ossessivo al richiamo di un peccato originale alla base della fondazione stessa della nazione americana: le case inquietanti sono sempre costruite sopra un cimitero indiano, e non è un caso.

Il Nascondiglio (the hideout) – 2007 – Pupi Avati
Pupi Avanti è tornato ogni tanto all’horror, e lo ha fatto anche di recente. In questo film tutto italiano ma prodotto negli Stati Uniti, il regista bolognese fa precipitare Laura Morante in una storia macabra e dai risvolti davvero foschi. E al centro di tutta la storia c’è ancora una volta una casa. E non solo la sua storia e gli avvenimenti passati che vi si sono svolti, ma anche la sua stessa struttura, la planimetria e addirittura i metodi di costruzione. E anche le sue porte, e l’antico modo di chiuderle.

Shining (The Shining) - 1980 – Stanley Kubrick
Lasciamo per ultimo, anche se non è il più recente, il capolavoro horror del maestro inglese. Persino un bambino (anche se magari non è proprio un film da far vedere ad un bambino) si accorgerebbe che il protagonista del film non è Jack Nicholson-Jack Torrance, non è sua moglie, non è il piccolo Danny e non è neanche il cuoco negro dotato degli stessi poteri del bimbo, ma è solo e soltanto l’albergo.
Se Stephen King nel romanzo era stato forse più esplicito con le parole nel dare anima, sentimenti e persino movimenti fisici all’enorme Overlook Hotel, Kubrick da regista gli ha dato vita attraverso lo spazio e i colori.
In questo caso, ed è forse un caso unico, non è tanto l’albergo ad essere un personaggio, ma ogni sua stanza. Ed ogni ambiente ha la sua personalità, il suo carattere e il suo modo di essere pericoloso.
L’enorme salone con la gigantesca scalinata che vede i tentativi di scrittura di Jack e l’insostenibile scena di tensione fra lui, la moglie, la mazza da baseball e la scalinata. La sala da ballo dove i fantasmi diventano concreti e ricostruiscono il mondo e anche la vita intorno a Jack, sottraendogli la sua e dandogliene un’altra. Il bagno bianco e rosso, indimenticabile. L’appartamento e le porte che Jack apre a colpi di accetta. I corridoi labirintici dove Danny corre col triciclo e il labirintico giardino dove Danny si ritrova a fare Pollicino che sfugge al padre-orco. Le cucine immense, le celle frigorifere e le dispense grandi da sole come appartamenti interi. Ovviamente, la stanza 237.
Non c’è un solo ambiente dell’albergo che non venga utilizzato in forma drammatica, sfruttandone le caratteristiche peculiari e animandolo di una personalità propria. I fantasmi, lo scrittore custode, la moglie, il figlioletto, il cuoco, sono tutti comprimari, l’Overlook Hotel, le sue stanze e i suoi corridoi sono i veri e unici protagonisti, e l’unico vero motore di tutta la storia.

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