L'infinito in una stanza

di Alessandro Borgogno

Il Musée D’Orsay di Parigi è un luogo magnifico, ex stazione ferroviaria (la Gare D’Orsay appunto) trasformata dal genio di un architetto (italiano, Gae Aulenti) in una moltitudine di spazi per la visione e l’immersione fisica nell’arte moderna in forma di pittura, cinema, scultura, fotografia e altro ancora. Spazi che sono pensati proprio per permetterti di godere al meglio delle visioni che ospitano.
Quando ci sono andato la prima volta, tanti anni fa, mi ero preparato a farmi inondare e sommergere dai colori di Manet, Van Gogh, Renoir, Cézanne, Monet e via immensamente elencando, Non ero però preparato a farmi inghiottire da uno dei quadri apparentemente meno spettacolari.
Così, a un certo punto, sono entrato in questa sala piena di Van Gogh, uno più meraviglioso dell'altro, e in assoluto fra i più famosi: campi di grano giallissimi, cieli stellati, alberi frustati da un solido vento dipinto a strisce bianche e blu. Ed ecco che, passata la prima ubriacatura, lo sguardo ha piegato inesorabilmente, quasi tirato da una fune invisibile, verso uno degli angoli della sala.
Lì c’era lui.
La stanza ad Arles.
Una delle due versioni (l’altra sta in Olanda) nelle quali Vincent ha riprodotto la stanzetta in affitto nella quale ha vissuto, nel sud della Francia, nel periodo in cui ha realizzato anche molte delle sue immagini più famose.
Rispetto agli altri quadri è perfino piccolino, come dimensioni. Immenso per tutto il resto.
Beh, sarà stato anche l’effetto del vedere una stanza riprodotta in un quadro all’interno di una stanza piena di altri quadri, non saprei dire bene, fatto sta che sono rimasto assolutamente incantato senza muovere un muscolo.
Compagni di viaggio e di visita mi hanno cronometrato a mia insaputa: almeno 20 minuti immobile senza neanche accorgermi di chi e di cosa avevo intorno.
Spariti in un colpo campi gialli, cipressi tormentati, colazioni sull’erba, giochi di luce di Renoir, paesaggi polverizzati di Sisley e di Pissarro, ballerine di Degas, ninfee e incredibili cattedrali gotiche di Monet. Via tutto.
Sono finito risucchiato lì dentro, a cercare di guardare sotto quel letto, fuori da quella finestra, ad immaginarmi i particolari dell'asciugamano appeso alla parete, e chiedermi come si fa a rappresentare qualcosa in questo modo e a parlare di infinito disegnando una stanza di pochi metri quadri.
Perfino Leopardi, che era Leopardi, ha dovuto almeno affacciarsi alla finestra; Van Gogh non ha avuto bisogno neanche di aprirla.

 
Nel 2010, questo articolo è stato inserito nella raccolta Attraverso le forme, che potete trovare qui.

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